“BLACK
TAPE” PRESSROOM
Intervista
de "il manifesto"
(http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Luglio-2002/art76.html)
Il
mio cinema, piccole storie contro la guerra
Incontro con Fariborz Kamkari, sguardo lucido della nuova generazione
di cinema in Iran. Il suo film d'esordio, «Black Tape»,
storia di una rifugiata kurda a Teheran, sarà alla prossima
Mostra di Venezia. Intanto il regista è arrivato in Italia
alla Cittadella del Corto con «Born to be soldiers»,
sulla guerra civile in Kurdistan.
CRISTINA PICCINO
ROMA
Fariborz Kamkari ha trent'anni, è nato a Teheran dove
vive e insieme ad altri registi, come Samira Makhmalbaf o Bahman
Ghobadi è tra gli sguardi di una possibile nuova onda
iraniana, quella cresciuta con le immagini di Abbas Kiarostami
o Mohsen Makhmalbaf e soprattutto con un'idea di un cinema che
sia vitale, arma di presente e memoria ma anche luogo di libertà,
di ricerca, di invenzione. Non a caso se gli chiedi quali sono
i suoi film preferiti ti parla di Rossellini o del neorealismo
italiano, di un racconto della realtà in cui documento
e fiction si mescolano, producono poesia e insieme consapevolezza.
Anche se poi Kamkari ha come primo amore il teatro, studiato
all'università di Teheran, realizando numerose regie
e copioni teatrali. E poi i cortometraggi, le sceneggiature
per la tv o per altri registi - tra gli altri proprio Ghobadi
nel sorprendente Il tempo dei cavalli ubriachi - un pungente
frammento di quella realtà che nella visione occidentale
è sempre più soffocata dagli stereotipi giustificazione
a senso unico di aggressioni o indifferenza. Del resto è
anche questa una caratteristica del cinema di quei giovani che
provano a costruire una doppia consapevolezza, un racconto al
resto del mondo che vuole esprimere la singolarità e
una diversa coscienza nel proprio paese rispetto a censure o
rimozioni. Kamkari nei giorni della rivoluzione khomenista era
poco più che un ragazzino. «Non ricordo molto di
allora, mi è rimasta la sensazione di una situazione
molto, molto difficile specie nei mesi dopo la rivoluzione.
C'era la guerra con l'Iraq, ogni notte cadevano le bombe»
dice oggi. E anche da lì, da un passato mai formalizzato
e sempre in stretto cortocircuito con l'attualità arrivano
le loro storie. Un esempio? La guerra in Kurdistan. Nel parlava
Lavagne di Samira, ne parlava Il tempo dei cavalli ubriachi
, ne parla anche il lungometraggio d'esordio di Kamkari, Black
Tape, che sarà alla prossima mostra di Venezia nella
sezione dei Nuovi Territori, la storia di una rifugiata curda
a Teheran e degli uomini chiave nella sua vita. «Anche
se non è un film d'amore ma è soprattutto un film
politico perché esplora le relazioni tra i curdi e la
nostra società». Intanto però Kamkari è
già arrivato in Italia, ospite a Trevignano della Cittadella
del Corto, il festival che da otto anni lavora sulle tendenze
del formato breve (si chiude domani) con Born to be soldiers,
di nuovo il Kurdistan in piena guerra civile. Protagonisti sono
due ragazzini, due cuginetti di undici e quattordici anni, nemici
per forza perché mercenari in fazioni diverse. Uno imprigiona
l'altro che gli chiede la libertà. Per un giorno dimenticano
la guerra e tornano ragazzini, poi però la realtà
ne cancella ogni ricordo di infanzia... Documento e fiction
(i ragazzini erano veri piccoli soldati), in Iran non ha avuto
il permesso di essere proiettato in sala cosa che rende Kamkari
molto triste. Dice: «non si può parlare di quella
guerra in cui sono coinvolti Turchia, Iraq e Siria. Non si deve
mostrarla, meglio fare finta di niente. E in più il mio
corto è contro la guerra...».
Come sei arrivato a «Born to be soldiers»?
FK- All'epoca lavoravo per un'associazione
umanitaria in Kurdistan durante la guerra civile. Un giorno
ho incontrato i due cugini del film, erano mercenari e uno dei
due aveva arrestato l'altro. Accade spesso lì, la guerra
è la sola possibilità di guadagnare un po' di
soldi per vivere, la gente non ha nulla, non sa come mangiare,
per questo anche i fratelli posso diventare nemici. Così
gli ho dato venti dollari per lasciare i loro gruppi dove erano
pagati, rischiando la vita, cinque dollari al giorno. Sono venuti
con me e abbiamo girato il film. In guerra erano nemici, nella
vita di tutti i giorni erano due ragazzini con ancora la voglia
di esserlo anche se sono stati costretti a vivere cose terribili.
In Kurdistan ho visto la disperazione, la miseria, la violenza
è inevitabile, arriva da tutte le parti. La gente, come
dicevo, non ha nulla, non possono neanche coltivare la terra
perché è tutto pieno di mine. E' un terribile
paradosso ma gli resta solo la guerra per vivere.
E' per questo che il Kuridstan è così presente
nei tuoi film?
FK-Il cinema può raccontare le vittime
e aiutarle. L'occidente non ha fatto molto in questa situazione,
anzi sembra piuttosto indifferente. Il cinema può mostrare
questa realtà all'occidente, non ai politici ma alle
persone che non ne sanno nulla e che magari pian piano possono
forzare i loro governi a trovare una soluzione. Non credo molto
alla politica, penso piuttosto che se si riesce a creare una
consapevolezza collettiva rispetto a quanto accade nel mondo
si possa arrivare più lontano che con le promesse dei
politici. Perchè questi problemi riguardano tutti. E'
come l'11 setttembre: non è stata una tragedia solo per
New York, ha colpito il mondo intero.
A proposito, l'11 settembre è stato usato anche
per rafforzare reciproci pregiudizi...
FK-Penso che l'occidente non abbia capito i
principali problemi di coloro che definisce i «suoi nemici».
Ha dato loro bombe quando hanno bisogno di aiuti, cibo, medicine.
Tanti che dicono di combattere per Bin Laden neanche ci credono
nel terrorismo, sono come quei ragazzini curdi, hanno fame,
devono nutrire le famiglie, è la tragedia di questa gente
che muore in guerra. Penso però che ci sia anche un'enorme
ignoranza. Noi sappiamo tutto degli Stati uniti, loro molto
poco di noi. Il cinema in questo senso può cambiare le
cose, aiutare una conoscenza che sia reciproca rendendo questa
parte del mondo, la gente che ci vive più familiare,
raccontando il quotidiano, le storie personali e non solo le
cronache piene di luoghi comuni.
Cosa significa fare cinema oggi in Iran? Ci sono ancora
molte difficoltà?
FK-Soprattutto è un problema economico.
Non abbiamo grossi aiuti, la televisione non sostiene il cinema.
E' vero che girare un film in Iran costa pochissimo e per noi
è stato fondamentale il digitale, aiuta i registi come
me a mettere insieme i loro film senza aspettare troppo tempo.
Dal punto di vista del controllo «politico», della
censura le cose vanno molto meglio. Il presidente Kathami stra
cercando di cambiare la situazione, non è facile ma ci
sono stati molti miglioramenti.
E qual è la condizione dei rifugiati curdi in
Iran?
FK-Vivono molto male, sono poveri, emarginati
anche se rispetto alla Turchia stanno già meglio, almeno
possono parlare la loro lingua cosa che invece là gli
è proibita. E' un problema culturale che si presenta
in tutte le relazioni fra una società e le minoranze.
Ed è difficile da superare. Per me parlarne, come ho
fatto nel mio film, Black Tape, è sempre un modo per
capire meglio la realtà in cui vivo. Il cinema è
un po' lo specchio di un paese , in Iran ci aiuta a scoprire
o a conoscere in modo profondo la nostra cultura e le nostre
contraddizioni. Ed è importante mantenere una specificità
perché i problemi sono diversi ovunque, le culture sono
diverse una dall'altra. E un po' il contrario di quanto fa un
certo cinema americano che vuole essere uguale per tutti.