“BLACK TAPE” PRESSROOM

DA GLOBAL MAGAZINE
Maggio 2003

(CULTURA PAG 79/80)
DIARIO DI UNA PRIGIONIA
Di Flavio Donnini

Intervista a Fariborz Kamkari, regista curdo iraniano di “Black Tape, a Tehran diary”: “detesto chi sfrutta la fede dei credenti facendo leva sul fondamentalismo”
Il tuo film, “Black Tape” inizia con la frase “in the name of god”, per noi occidentali che viviamo in una società laica è importante capire quale sia il peso del momento religioso nell’islam, soprattutto in riferimento all’ultima guerra in Iraq, dove anche il Vaticano, schierandosi apetamente contro il conflitto, ha contribuito ad evitare che l’attacco anglo-americano si trasformasse per i musulmani in una vera e propria guerra di religione.
Si è vero, la reazione del Papa è stata molto forte e sentita, anche se in passato non ha sempre avuto un atteggiamento così radicale nei confronti di altre “guerre”, e credo abbia contribuito a non aggravare ulteriormente la situazione.
Nonostante questo non è riuscito ad evitare che alcuni gruppi fondamentalisti abbiano comunque parlato di aggressione cristiana all’islam, facendo appello a un’antica tradizione radicata in alcuni ambiti religiosi, trasformando Saddam da criminale e assassino in un nuovo eroe della causa musulmana. Devo dire che il paradosso ha attraversato molti di noi musulmani! Nella nostra cultura il pericolo del fondamentalismo è sempre presente, e sicuramente andrebbe maggiormente stigmatizzato per evitare che si perdano di vista le reali ragioni dei conflitti. Non è raro che all’interno della cultura musulmana ci sia chi giocando sull’ingeniuità o la buona fede dei credenti faccia leva sul fondamentalismo per acquisire fama e potere personale. Questo è uno degli aspetti che maggiormente detesto. Va detto, comunque, che io provengo da una cultura, quella iraniana, dove la religione riveste un ruolo fondamentale, e quella frase va intesa come un’invocazione di buon auspicio tipico della nostra tradizione culturale. Mi rendo conto che l’aspetto religioso è per l’Occidente spesso motivo di confusione e fraintendimento come per noi lo sono alcuni elementi della vostra cultura. Forse una maggiore conoscenza reciproca sarebbe utile per evitare molti dei problemi in cui ci troviamo!
E’ pur vero che in Iran ogni progetto sia esso un film, una canzone o un libro subisce una rigida verifica da parte degli organi di censura politici e religiosi, e ci sono regole e comportamenti che vanno rispettati.
Tendenzialmente ciò avviene, ma spesso siamo costretti ad adottare degli escamotages per ovviare a questi controlli.
Nel tuo film, la protagonista, la giovane curda venduta all’ex ufficiale iraniano, che stanca di subire le sue angherie decide di provocarsi un aborto, e per il modo violento in cui lo fa sembra quasi un volersi togliere la vita, una sorta di autosacrificio…
Si, lei vuole procurarsi un aborto, e alla fine ne muore, ma non so se sia un suicidio. Lei ne muore più perché le persone a cui si rivolge per abortire non hanno gli strumenti adeguati per farlo, e questo è un problema comune a molte ragazze, l’aborto è proibito e spesso è praticato con modalità assolutamente primitive, per cui è facile sentire di donne che ne muoiono. Anche parlare di aborto è proibito, infatti nel film tutte le scene che vi riferiscono sono assolutamente allusive.
Del tuo film mi ha molto colpito il radicalismo con cui utilizzi la macchina da presa, una continua soggettiva a volte claustrofobica dell’unico occhio che sembra vedere la realtà, la ragazza curda appunto. E’ lei che ci parla della sua casa prigione, è lei che cerca di scoprire le sorti di quel popolo curdo in fuga da una guerra che tu non precisi, è lei che cerca di mettersi in contatto con i suoi familiari, è lei, alla fine, che uccide il marito con un colpo di kalashnikov, prima di compiere quell’ultimo gesto disperato. Una figura simbolo con la forza di un peshmerga che si ostina ad affermare il suo diritto ad esistere, come da anni tenta di fare il popolo curdo.
La donna in effetti è l’unico personaggio che agisce cercando di dare un impulso diverso alla realtà che la circonda. Il senso di realtà che volevo emergesse dal film mi ha portato a mostrare il tutto come se io non ne fossi l’artefice, infatti nel sottotitolo del film dico di aver trovato la cassetta nella spazzatura, e quindi io sarei solamente colui che l’ha mostrata agli altri, un mero strumento. Il film è sempre mostrato in soggettiva di uno dei personaggi, quasi sempre di Goli la protagonista, che essendo donna, ma anche curda è costretta a subire una duplice violenza da parte del marito e delle persone che la circondano.
E’ più di ottanta anni che il popolo curdo vive in una situazione di oppressione e di disagio. In tutte le nazioni in cui è stato costretto a vivere i rapporti con i governi centrali sono sempre difficili quando non completamente assurdi, come in Turchia. In Iran la situazione è molto diversa, qui il conflitto si riduce alle problematiche che si trovano ad affrontare tutte le minoranze dei vari paesi. A noi non è proibito quasi nulla, possiamo utilizzare la nostra lingua, pubblicare libri in curdo, festeggiare le nostre ricorrenze, godiaùmo di molti diritti. Così come in Iraq dopo la guerra del Golfo, i curdi hanno potuto eleggere un proprio governo e godere di una certa autonomia anche se tenuti a distanza dalle vere risorse dell’area, i pozzi di petrolio appunto.
Nel mio film questo stato di cose è espresso dalla relazione fra l’ex ufficiale iraniano e la moglie curda, una relazione fra carnefice e vittima. Lui dice di amarla ma poi la tiene segregata in casa come in una prigione; le impedisce di avere ogni contatto con il mondo. Lei vorrebbe sapere cosa succede alla sua gente, a quel popolo curdo scampato alla repressione di Saddam e rifugiatosi in Iran, ma tutto le è proibito.
Credi che dopo questa guerra ci sarà qualche possibilità in più per i diritti del popolo curdo nel suo insieme, visto anche il coinvolgimento dei curdi iracheni a fianco della coalizione anglo-americana, o forse dovranno ancora ricorrere ai rimedi estremi come ha fatto la tua protagonista…
La situazione è molto complessa. Da un lato non credo che ci sia tra i curdi l’idea di creare uno stato unitario se non come sogno. Per il momento ogni gruppo cerca di risolvere i problemi presenti all’interno del proprio paese di appartenenza. I turchi hanno sempre perseguitato con accanimento la minoranza curda e forse continueranno a farlo, visto il disinteresse mostrato dalla comunità internazionale. Le stesse componenti musulmane non tollerano una loro totale autonomia, basti vedere cosa è successo nelle città del nord dell’Iraq. Per quello che mi riguarda sono contrario ad un ulteriore utilizzo del conflitto armato. Per anni si è tentata questa strada senza alcun risultato. In Iran le conquiste sociali sono state raggiunte grazie all’evoluzione politica del paese e ai processi democratici che da tempo lo interessano. Il presidente Khatami fu eletto da 22 milioni di persone. Il governo iraniano fondato sul potere religioso sta ora facendo marcia indietro su alcuni atteggiamenti del passato. C’è una consapevolezza crescente che gli insegnamenti religiosi intesi in modo ortodosso e rigido non possano dare tutte le risposte ad una società sempre più complessa ed evoluta. La gente chiede cambiamenti e sembra che ci sia un nuovo tipo di ascolto da parte dei nostri governanti. Il caso iraniano è forse l’unico nell’area medioorientale che vada in questo senso.
Per ritornare al film, come ti accennavo, anche la mia protagonista esce in qualche modo sconfitta dalla sua guerra personale. Infatti la telecamera alla fine del film passa nelle mani della sorella più giovane, perché l’occhio della conoscenza possa illuminare le menti delle nuove generazioni, e credo che il cinema e la cultura possano incidere molto sulla realtà, purché gli si dia spazio e visibilità.
Per quanto riguarda un eventuale appoggio degli americani, lo guardo con molta diffidenza. Nel Medio oriente ormai tutti sospettano delle reali intenzioni degli americani. Ogni volta che sono intervenuti è nato un nuovo piccolo dittatore, quelli che un tempo erano i loro amici e protetti sono divenuti adesso i loro più acerrimi nemici. Fenomeni come quello di Saddam non vengono fuori in una notte, ci sono voluti anni per crearlo e l’appoggio dell’Occidente è stato fondamentale. Come lo fu per lo scià nel nostro paese messo lì direttamente dalla CIA.
In questo momento il popolo è disorientato e penso che gli USA stiano soltanto cambiando strategia ma non la sostanza del loro intervento. Noi chiediamo di poter determinare le nostre scelte e correggere eventualmente i nostri errori, non quelli degli altri.
Fariborz Kamkari nato nel Kurdistan iraniano vive oggi a Tehran. Considerato una delle giovani promesse del cinema iraniano ha esordito con il film “Black Tape, a Tehran diary” (the videotape Fariborz Kamkari found in the garbage) partecipando all’ultimo festival del cinema di Venezia e alla prestigiosa manifestazione organizzata dal MOMA di New York “New Films New Directors”. La sceneggiatura del suo nuovo lavoro “Seyf o allah” (la spada di dio) è stata selezionata dal redfodiano Sundance Institute.